Alice Pedrazzi
Il contagio come un infortunio: servono tempo, forza e pazienza
Aggiornamento: 26 apr 2020
Lo sport e le parole, due grandi amori che spesso fanno dei giri immensi, ma quasi sempre ritornano.
E quando si incontrano, mi permettono di vedere il mondo con un po’ di serenità in più. Anche dalla quarantena, per guardare il contagio con gli occhi dello sport, da sempre la più grande e bella parafrasi della vita.
Il tempo che stiamo vivendo, in alcuni, fa riattiva memorie lontane che vengono dal campo, dallo stadio, dal ring, dalla palestra, riportando al presente sensazioni, emozioni, paure ed interrogativi lontani.

Chi è stato giocatore o giocatrice, infatti, lo sa: l’infortunio arriva quando meno te lo aspetti e, improvvisamente, rivoluziona la quotidianità a breve e, nei casi peggiori, a medio-lungo termine. L’infortunio ti toglie la routine settimanale (giorno-libero-ripresa allenamenti-allenamento-allenamento-pizza con la squadra –partenza per la trasferta-partita-giorno libero). Tiestranea da tutto, togliendoti il conforto delle abitudini quotidiane: la squadra si allena, parte, va e torna. Tu resti. Immobile. Sospeso. L’infortunio rivoluziona il linguaggio quotidiano: non più taglia-fuori, dai e vai, flex, zona o uomo, ma legamento, terapia, rieducazione, antidolorifico, intervento, clinica, ospedale.L’infortunio suscita rabbia e senso di impotenza: non dipende da te, ma agisce su di te. Amplifica le emozioni ed il senso di vuoto. Genera l’ansia da programmi saltati: oggi sarei dovuto partire per la trasferta più bella dell’anno, domani sarebbe arrivata la convocazione in nazionale, dopodomani avremmo giocato la finale scudetto. Ed invece: tutto fermo. Tutto annullato. Sindrome da agenda saltata e bianca a tempo intederminato.
Dopo settimane, mesi o anche anni in cui i ritmi senza sosta facevano sperare – a volte invocare – un po’ di tempo libero, quando arriva l’infortunio, quel tempo, non è libero: è vuoto. Perché non è una scelta, è una costrizione. L’infortunio amplifica ogni sensazione, ti spinge ad ascoltare con attenzione maniacale ogni più piccolo segnale che il corpo invia, per intercettare – o forse solo intuire – miglioramenti anche minimi che ci permettano di azzardare le tempistiche di recupero e la fine dell’isolamento. La ripresa, la fase 2. Così come ora tutti siamo attaccati alle curve del contagio, che analizziamo, pesiamo, misuriamo, confrontiamo, “nettizziamo” o “lordizziamo”. L’Italia pare stretta nella morsa di un grande infortunio collettivo: ci dibattiamo, non ci rassegniamo, cerchiamo ostinatamente di fare previsioni, ci facciamo travolgere da improvvise ondate di speranza per ogni minima variazione del dato dei contagi, per poi sprofondare in stati depressivi quando quelle curve tornano a salire e profonda tristezza e commozione davanti alla desolante conta delle vittime…

(Foto di Antonella Marchini)
La domanda ricorrente, quasi assillante è: quanto vi vorrà? A quando il rientro il campo? E ciò che più inquieta è il senso di indeterminatezza: non si sa. Si possono azzardare previsioni, ma in realtà non si sa quando la caviglia si sgonfierà o il ginocchio tornerà a piegarsi dopo la ricostruzione di un crociato. Non si sa quando la curva piegherà definitivamente. Non si sa quando si troveranno cura e vaccino. Tutti però dovremmo sapere che l’infortunio, proprio come il contagio, ha i suoi tempi, che con i nostri comportamenti (terapie e rieducazione, come applicazione delle misure di distanziamento sociale e utilizzo dei DPI) possiamo fare molto, ma non tutto. Possiamo accelerare o rallentare, ma c’è un ingrediente essenziale in ogni rieducazione: la pazienza. E la consapevolezza che l’infortunio non ci restituisce al campo mai uguali a prima. Né fisicamente, né mentalmente. Una caviglia infortunata si fascia per mesi o anni, anche quando si ritorna sul campo. Ecco, prepariamoci con pazienza ad un ritorno ad un “nuovo agonismo”, con tempi, attenzioni e precauzioni (fisiche, igienico-sanitarie, ma anche sociali ed economiche) necessariamente diverse. E non sempre è un male. In quanti, dopo un infortunio, hanno apprezzato molto di più il valore di una vittoria conquistata sul campo e hanno imparato a rispettare e lavorare con il proprio corpo in modo completamente differente e più consapevole?
(Articolo pubblicato sul quotidiano La Stampa-Ed.AL)